Un “bel dono di Natale”
1948. Ero alle dipendenze di una Ditta locale da circa tre anni. Avevo incominciato a lavorare nel momento stesso in cui iniziava l’attività commerciale di questa azienda. All’inizio ero l’unico dipendente con la stupefacente qualifica: ’fare di tutto’.
Malgrado la mia giovane età di allora (14 anni) avevo preso subito passione per questo lavoro e davo il meglio di me stesso. Non avevo orari; lavoravo anche nei dopocena e, in caso di necessità, anche di notte e sempre con rinnovato entusiasmo, anche se lo stipendio era miserino.
Dopo tre anni l’azienda era più organizzata, il personale era aumentato. Lavoravo sempre oltre l’orario normale ma ero riuscito ad ottenere, come unica concessione, una serata libera alla settimana per i miei impegni e, perché no, anche per quelli sentimentali… Cribbio! Avevo quasi 18 anni, perdirindindina!
Ma è il 1950 l’anno in cui ho avuto molte soddisfazioni. Per la parte commerciale ero io a mantenere i rapporti epistolari con la clientela, coi rappresentanti e coi fornitori per i materiali di mia competenza.
Da questi scambi di corrispondenza sono nati dei rapporti amichevoli e molti clienti si complimentavano per il mio modo chiaro, rapido e convincente con il quale rispondevo alla corrispondenza che loro inviavano. Questi encomi e gli attestati di stima a me facevano molto piacere. Ho avuto diversi contatti diretti con clienti che venivano di presenza, e con alcuni ho pranzato assieme ottenendo accattivanti rapporti per la soddisfazione mia e della Ditta. Non era molto, ma chi si accontenta… gode.
Verso la fine dell’anno, poco prima di Natale, il titolare della Ditta si avvicina e mi comunica che deve parlarmi da solo e mi fissa l’appuntamento per le 20,30 della serata in cui abitualmente ero lascia- to libero dagli impegni di lavoro. Fulmini e saette! mi ribolle il sangue: lavoro giorno e notte, di sabato e a volte anche di domenica, con tutto ciò vengo privato del diritto alla mia serata libera! Ho 19 anni, perbacco! Questo appuntamento scombina i miei piani e annulla tutto il bellissimo programma sentimentale che avevo programmato, e non solo. Adesso dovrò cercare il Tizio che dovrà dire a Caio quello che deve comunicare a Sempronio affinché riferisca alla persona che avevo invitato a partecipare alla festa che sono stato bloccato da un impegno in- derogabile. Tutto questo colla speranza che almeno mi salvi la faccia e non mi costringa a perdere tutto il resto.
Non conosco i motivi dell’invito. Penso: forse questo appuntamento serve solo al capo per farmi una paternale, perché io, responsabile del personale, avevo rimproverato un dipendente, suo ex collega, per il suo comportamento controproducente, da menefreghista. Io sono pronto a sacrificarmi per un collega che ha dei problemi, che non sta bene, ma non per uno che gira a vuoto, mentre io sto dando l’anima e lui intende solo tirare a sera e prendermi per i fondelli.
E venne quella sera: 23 dicembre del 1950. Sono le 20,15, inserisco la chiave che esclude l’impianto d’allarme e con le due successive apro la porta ed entro nell’ufficio della Ditta. Ore 20.55, arriva LUI, mi saluta e dice:
«Non disturbo, vero? Mi dispiacerebbe interromperti da un lavoro che magari hai iniziato.»
La smorfia del mio viso deve essere stata molto eloquente. E riprende: «Bene, va bene così, era solo una domanda. Quello che ti volevo dire è che è giunto il momento che anche tu prenda in mano il campionario e diventi un ‘procacciatore d’affari’. Così ho deciso.»
E, senza sentire il mio parere, prosegue:
«Ho già preparato il tuo programma. Lasciamo passare le feste e il giorno dell’Epifania parti per Bari. Incontrerai il Commendatore, che conosci, e con lui visiterai la clientela per una settimana. Ti servirà da esperienza. Dopo ti imbarcherai per la Sardegna dove, come tu sai, non abbiamo manco un cliente. E sarà tuo compito procurarli per dare lustro alla nostra immagine. Ti faccio tanti auguri ora perché domani parto per Napoli e passerò le feste natalizie con la famiglia dell’amico Antonio. So che ti farai onore! Non deludermi. Ciao, buona fortuna.»
E se ne va…
E dove va!? Appena scesi i due gradini dell’ufficio ritorna indietro e, con fare indifferente, butta una busta sulla scrivania e poi, con le mani libere mi abbraccia. Poi, apparentemente commosso, senza proferire una parola, con il solo cenno di saluto con la mano, esce veramente. Sento che richiude la porta principale con fare delicato senza la consueta rumorosa improvvisa sbattuta che faceva spaventare tutti.
E io? Io sono lì seduto imbambolato, e tutto mi gira intorno. Troppi avvenimenti non consoni alla normale regola, troppe cose nuove e non facili da interpretare. Sono immerso in visioni astratte, quasi fosse un sogno: “Vedo che sul disco posto sul piatto del grammofono c’è l’immagine di una persona molto delusa, il faccione del commenda barese; una Sardegna, strana e poi il disco che incomincia a girare e gira vorticosamente e tutte le immagini si fondono e… non capisco più nulla”.
Piano piano la ragione si fa strada, il cervello ricomincia a ragionare; mi sento sconvolto perché non mi sarei mai aspettato un gesto così grande, anzi immenso, di stima e fiducia nei miei confronti. Io so di avere fatto il mio dovere, ma mi sembra di essere stato eccessivamente premiato. Tremo tutto, sto pure sudando malgrado la stufetta sia stata spenta da molte ore.
Mi accorgo della busta lasciata sulla scrivania; ritengo l’abbia dimenticata; la prendo e, invece, è intestata a me e non è neppure chiusa; e- straggo un foglietto a cui è allegato un assegno e leggo:
“Dovrai vestirti sobriamente e gestire personalmente la tua persona. Se mi permetti vorrei consigliarti gli abiti che hai e che ti stanno molto bene: il principe di Galles, il sale e pepe, e per viaggiare usa lo spezza- to. E’ un suggerimento. L’assegno allegato è un mio personale omaggio. Comprati almeno sei camicie bianche, solo bianche, con il collo moderno, e un paio di cravatte di seta, classiche, e poi… vedi tu… il resto, se c’è, è MANCIA. Ricordati di prenotare in anticipo la camera all’HOTEL ORIENTE di Bari e insisti perché ti diano la camera 27. Ti saluto, in bocca al lupo. A presto, ciao.”
L’importo dell’assegno era il doppio della mia mensilità. Bang! Bang! Non ci voleva anche questo finale. Sono distrutto, piacevolmente di- strutto e confuso. Tutto mi sembra irreale anche se sono stato personalmente il testimone della trasformazione del ‘BURBERO’ in ‘BE- NEFICO’, una metamorfosi impossibile da immaginare fino a pochi minuti prima.
In me non c’è più la rabbia di prima, ora il suo posto è preso dal pentimento; sono attanagliato da un grande rimorso per quanto ho detto e pensato sul conto del mio capo. Sono mortificato e provo vergogna di me stesso. Incrocio le braccia sulla scrivania, vi appoggio la testa, mi prende una forte crisi di pianto. Piango intensamente e giustamente perché questo è un pianto liberatorio.
Ora mi è tutto più chiaro, ho avuto una lezione di esperienza di vita che a 19 anni non ti fa diventare subito un uomo, ma, intanto, ti regala una buona dose di maturità. Percepisco dei brividi alla schiena; questa volta non tremo per l’emozione, questi sono veri brividi di freddo. Debbo andarmene, è quasi mezzanotte.
Prima di uscire penso a mia madre che, a soli 27 anni (quando io frequentavo ancora l’asilo) è volata in cielo, e come mi appare il suo dolce volto la saluto e le chiedo di assistermi in questo delicato momento affinché io possa essere degno della fiducia accordatami. Poi, dopo avere inserito il sistema d’allarme, spengo le luci ed esco. Come esco, una gelida brezza mi avvolge in un delicato e… materno abbraccio: è mia madre che con questo segno vuole rassicurarmi e garantirmi la sua protezione. Provo una grandissima commozione, e anche il cielo è commosso perché piange… sì… piange con le lacrime di neve che scendono lentamente e, attraverso il fascio luminoso del lampione stradale, i fiocchi appaiono come delle farfalle lucenti e quelli più piccoli assomigliano a delle lucciole. Lucciole di Natale.
Il pino del giardino è diventato come per incanto anche lui un albero di Natale e pure la tanto odiata rete metallica di recinzione ora mi appare come un grazioso merletto; sulle sue rugginose maglie si è depositata la neve e le ragnatele gelate si sono disposte come degli innaturali e fantastici ricami; è una meraviglia. Meraviglia della natura. Il cortile è così bello ricoperto com’è dal manto candido e tanto perfetto che neppure i gatti hanno osato deturpare.
Tutto intorno è imbiancato e c’è tanto silenzio e in questa quiete paradisiaca sembra di vivere in un paese fiabesco. Sono estasiato. In poche ore, questa sera, ho avuto di che essere lusingato sia per la grande manifestazione di fiducia con un compenso altamente remunerativo e sia per la gioia di sapere che mia madre mi assisterà e, inoltre, per il privilegio di potere assistere a questo spetta- colo celestiale. Tutto questo, credo, avviene per offrirmi la «MIA SERATA D’ONORE» e non potrei chiedere di più; questo è il bel dono di Natale.
“Come tu sai, madre mia, il tuo sposo e mio buon padre ha voluto mantenere il lutto per alcuni anni e poi si è risposato con la tua migliore amica e così ho avuto una buona mamma, generosa, accattivante, laboriosa che mi ha amorevolmente cresciuto e alla quale devo moltissimo. Il suo grande affetto nei miei confronti, la rende molto apprensiva e sono sicuro che ora sta soffrendo non vedendomi rientrare. Perciò io debbo tornare a casa, ma per poterlo fare dovrò violenta- re questa immacolata coltre calpestandola e ferendola con i miei passi per poi lasciare sulle sue ferite, come subdoli e perfidi ricordi, le impronte, le mie devastanti orme. Anche se costretto, sono convinto di compiere un gesto da villano e non mi rimane che scusarmi e chiedere perdono alla natura.”
Partenza per Bari
A seguire, la cosa più difficile è stata quella di comunicare la notizia alle persone a me più vicine. In famiglia non ho trovato nessuno entusiasta, anzi questa improvvisa novità li fece sbiancare come degli anemici cadaveri. Però è bastato trascorrere con loro il Natale in casa che, parlandone con entusiasmo, piano piano sono riuscito a superare le loro perplessità e appianare la situazione. Oramai ero entrato completamente nella mia parte: per me convincere i miei famigliari è stato come conquistare la fiducia di un cliente.
Un po’ più laboriosa è stata l’opera di convincimento nella “zona extra famigliare”. Mi sforzavo in tutti i modi per fare capire che non c’era alcun pericolo, che non andavo in missione di guerra, che avevo ricevuto un ordine al quale non potevo disubbidire e che tutto sommato prima della fine di gennaio sarei tornato (qui dicevo la verità) e tutto finiva lì (qui mentivo sapendo di mentire). Sì, mentivo, perché se questa mia prima esperienza veniva valutata positiva, in base ai risultati ottenuti, chissà quante altre volte poi mi sarebbe toccato riprendere le valige e “anda”, buon viaggio. Però per il momento ero sincero.
Beh! Durante l’allegria del cenone di capodanno, con l’aiuto degli a- mici, con tutte le promesse, le coccole e altre cose del tutto personali e riservate, ho ottenuto l’ultimo beneplacito esattamente al momento di brindare all’arrivo del nuovo anno: il 1951. Evviva, buon anno e buon anche per me perché mi ha portato veramente bene: “chi ben comincia è già…”
Pensare che solo una settimana fa mi pareva di andare sulla luna; a me era sembrato il risveglio da un sogno irreale. Invece, ora, mentre il 1951 è ai suoi primi giorni, io, per contrasto, sono agli ultimi prima della partenza.
Il giorno prima di partire, di mattina, sono in sede per definire gli ulti- mi dettagli. I colleghi sono tutti molto gentili. Lo scansafatiche mi re- gala un suo portafortuna e mi promette di dare il buon esempio. Saluto tutti e poi via.
Mi sono preso un po’ di spazio anche per me per qualche saluto un po’ particolare in cui ci vuole più tempo del normale, anche perché non voglio nessuno alla mia partenza. Non voglio vedere lacrime: se ci saranno, saranno solo le mie.
E’ giunta l’ora. Sono le 8 di sera e già il capotreno mi accompagna alla cuccetta che avevo prenotato dicendomi che ci sono io da solo, non ci sarà alcun’altra persona nello scompartimento. In effetti noto che, for- se per la festività dell’Epifania, non c’è molta gente che sale sul treno. A questo punto tanto vale che mi metta subito a mio agio. Indosso il pigiamino a pois grigini (un regalo) con l’intenzione di sprofondarmi sulla cuccetta senza minimamente pensare che quella non è un letto, è solo una specie di branda camuffata. Allora, dopo avere fatta la nuova esperienza, mi siedo sul bordo della stessa e rileggo l’elenco dei clienti che dovrò visitare e anche i due codici di cui sono stato, materialmente, l’ideatore. Non li svelo, dico solo che uno serviva, con segni particolari, a classificare i giudizi personali sulla clientela e l’altro, con un procedimento diverso, serviva a richiedere ed ottenere dei soldi tramite il vaglia telegrafico. Cose da 1951.
Intanto il treno da un po’ di tempo sta viaggiando velocemente e, vero- similmente, dovrebbe giungere a Bari verso le ore 8 di domani mattina; il mio appuntamento con il Commenda è stato fissato per le ore 11, in albergo.
Il ninnante dondolio del rapido mi induce alla sonnolenza e lentamente mi addormento. Non è un sonno profondo perché di tanto in tanto mi sveglio per controllare l’orologio, e quando sono le quattro della mattina – credo che stiamo viaggiando sulla costa Adriatica – apro le tendine perché voglio vedere la luce, la luce, quando arriverà, del mio: “GRAN GIORNO”.
Eccomi a Bari. Prendo il taxi e mi faccio portare all’Hotel Oriente (5 stelle, cavolo!) dove mi hanno riservata la camera “27” nella quale ho trovato tutte le comodità, tutti i confort compresa una scrivania con tanto di macchina per scrivere le mie relazioni e la carta intestata dell’hotel, carta carbone e, ovviamente, gomme per cancellare, matite, ecc. ecc.; e pure la colazione in camera, se la desideravo, servizio di lavanderia e di stiratura. Roba da Nababbi, da Sceicchi (ma da scapolo senza ‘harem’). E va beh! non si può avere tutto… Dimenticavo, c’era pure il… letto.
Apro la valigia, sistemo per benino le mie cose nei capienti armadi, poi mi faccio un buon bagno rilassante; mi rado per benino, indosso l’abito di sale e pepe, evitando il principe di Galles per non apparire subito gagliardo e scendo al bar per consumare la prima colazione; preferisco così, non in camera. E dopo, finalmente, mi vado a sprofondare in una poltrona della hall. Immediatamente arriva un inserviente e, sapete cosa mi dice?
«Prego, signore, i giornali del mattino.»
Signore a me? Mi ha chiamato signore; era la prima volta che qualcuno mi chiamava così. Forse era già successo un paio di altre volte, ma ero al telefono e nessuno mi vedeva – da notare che sono appena due anni che mi faccio la barba. Mi viene da ridere, alzo un giornale davanti alla faccia, fingendo di leggere, per non farmi vedere che sto sghignazzando come un mimo. Traumatizzato, non ho neppure ringraziato il fattorino. Comunque è valsa la pena viaggiare tutta la notte per poi sentirmi chiamare ‘signore’.
Con qualche minuto di anticipo sull’orario fissato, ecco entrare nell’Hotel il Commenda barese. Gli vado incontro, una calorosa stretta di mano e poi mi abbraccia in modo paterno. Ci scambiamo, rimanendo in piedi, alcune parole di circostanza e poi via in macchina; saluto l’autista e si parte per la mia primissima missione. Ora debbo dimostrare non solo di saperci fare ma anche di essere un degno ‘signore’. Eh! Eh! Eh!
Il Commendatore, malgrado il suo aspetto burbero, è una bravissima persona, è molto conosciuto e stimato, e per il fatto di essere presentato da lui sono subito ben accolto e non ci sono difficoltà a ottenere le ordinazioni dai clienti.
Per i tre giorni successivi scendevo nella hall verso le 8,30, leggevo, ovviamente, i giornali e alle 9 arrivava l’autista in albergo e risalivo in macchina; salutavo il Commenda e poi iniziavamo la visita alla clientela, ma nelle località abbastanza limitrofe a Bari così che alla sera si rientrava al massimo verso le otto.
Il Commenda era contento del mio modo di fare, apprezzava la mia gentilezza e prontezza nel rispondere alle varie richieste che ponevano i clienti e, promuovendomi sul campo, mi disse che domani saremmo andati dai clienti più difficili.
Partenza alle 7. Quella notte era stata una nottataccia perché nel vicino Teatro Petruzzelli stavano allestendo gli scenari per uno spettacolo operistico del venerdì, sabato e domenica sera. Avevano lavorato tutta la notte provocando rumori vari che impedivano il sonno.
Quando siamo partiti da Bari, alle sette, ero veramente imbambolato e, dato che l’autista non poteva superare i 70 km orari, la macchina, viaggiando su quelle strade a gobba d’asino, mi provocava sonnolenza. La meta era Taranto, Brindisi, Lecce: chiesi cortesemente al Commendatore di lasciarmi appisolare. Concesso.
Il cliente di Taranto non era poi così ostico come mi era stato descritto e a Brindisi ho fatto subito amicizia col figlio del titolare, mentre a Lecce c’è stato un impatto iniziale poco cordiale; ma poi alla fine il cliente ci ha pure offerto il pranzo.
Il rientro a Bari: un inferno. Sempre con quella velocità di crociera, su e giù per quelle strade c’era da star male. Sono arrivato all’Hotel quando le persone che avevano assistito allo spettacolo operistico sta- vano uscendo dal Teatro. Mancava poco all’oggi per diventare domani. Il domani, sabato, abbiamo fatto visita ad un solo cliente, poi i saluti al Commendatore, la mancia all’autista, il tradizionale abbraccio e… arrivederci.
Pranzo alle 14, salgo in camera, ci sono già pronte le camicie lavate e stirate; consegno l’abito per una pulitura e stiratura e mi faccio un sonnellino. Più tardi preparo la valigia e domani: ciao, Bari. Tranne il venerdì di sofferenze, non è stato un vero lavoro ma è stata quasi una vacanza.
Sardegna aspettami, sto arrivando!
A proposito della Sardegna, ho chiesto, recentemente, al mio nipote più grande (13 anni):
«Mi sai dire cos’è la Sardegna?»
E lui prontamente mi ha risposto:
«La Sardegna è un’isola italiana ubicata nel mar Tirreno con, a poche miglia a nord, la Corsica, che è un’isola francese.»
Al più piccolo (3 anni) ho sottoposto la cartina dell’atlante in cui era raffigurata la Sardegna e gli ho chiesto:
«Mi sai dire cosa raffigura questa cosa stampata?»
E lui:
«E’ un disegno che non mi piace perché ci sono troppe righe storte.» Invece, alla mia nipotina di 11 anni ho chiesto se conosceva la Sardegna e lei di botto mi risponde:
«Certo che la conosco la Sardegna; io ci sono già stata.»
«Sei una bugiardina – replico io – in Sardegna ci sono stati i tuoi genitori quando non eri ancora nata.»
«Non sono una bugiarda – replica lei – io ci sono stata nella pancia della mamma.»
Ma pensa te. Io ho impiegato quasi vent’anni per poterla conoscere.
Partenza per la Sardegna
La domenica 14 gennaio 1951, di buon mattino, sono già a Civitavecchia. Mi reco al porto presso la biglietteria della Tirrenia per pagare l’importo dovuto per la traversata, in cuccetta, delle ore 22. Ritornando sui miei passi mi soffermo a guardare la motonave che è ancorata alla banchina del porto. Noto che assomiglia poco alle foto pubblicitarie in cui appare come un transatlantico della flottiglia Lauro; comunque l’importante è che galleggi.
Sulle fiancate esterne alcuni marinai la stanno pitturando; io ho avvertito quell’odore sgradevole della vernice e mi è venuto un forte senso di nausea. Scappo letteralmente dal porto e raggiungo il vicino Duomo. Assisto alla messa e quando esco è ancora molto presto, allora decido di andare a Roma con il treno.
Alla stazione Termini arrivo pressoché a mezzogiorno. La nausea mi blocca ancora lo stomaco e non me la sento di mangiare, per cui decido di fare il turista pedonale. Cartina alla mano, vado alla ricerca dei monumenti. Gironzolo fino al momento di riprendere il treno per il ritorno a Civitavecchia, dove arrivo verso le 19.
Ho ancora una… nausetta, però questa volta tento: sento lo stomaco vuoto. Entro in un ristorante e incontro un cameriere, gentile, molto premuroso e mi rivolgo a lui chiedendogli di servirmi un pasto che sia adeguato alla mia nausea e… alla traversata, perché non vorrei soffrire di mal di mare. Mi viene servita una bistecca con un contorno di insalata verde condita di non so se aceto o limone, un qualche condimento molto agro e forte. Il cameriere mi dice che non debbo bere assoluta- mente, solo mangiare quel poco e basta; farmi due passi per digerire e poi… buona fortuna.
Grazie del pensiero.
Passeggio lentamente portandomi verso l’imbarco e quando sono or- mai le nove di sera ritiro dal deposito bagagli le mie valige e mi imbarco salendo la scaletta predisposta, sul cui terminale ci sono gli addetti ai controlli dei biglietti di prenotazione.
Vengo accompagnato alla mia cabina proletaria da quattro posti cuccetta e lì inizia un nuovo turbamento: per l’odore della vernice, il rullio dei motori, le esalazioni di notte degli stessi credo di avere poca speranza di star bene e, a questo punto, non so più se pensare se sia stata una promozione o una vendetta del capo. Rifletto.
I letti sono a castello e io prendo possesso di un posto in basso e quando mi siedo trattenendomi lo stomaco che mi fa soffrire e con la nausea che mi perseguita, entrano tre allegri militari che sono in licenza. Mi salutano, lasciano le loro cose nella cabina e decidono di festeggia- re l’evento andando a cenare nel ristorante di bordo.
Bene, bravi, dico fra me e me, andate; preferisco rimanere qui da solo coi miei problemi. Senonché, prima di uscire, si mettono a leggere tutte le specialità che sono elencate nel menù.
Mamma, mamma mia, aiutami tu; questi sono dei soldati di satana che mi hanno mandato per farmi morire. Comunque se ne vanno: meno male.
Io, per adesso, continuo a soffrire ma resisto; anzi, per la verità, sono anche molto lucido d’intenti, tanto che sento tutto il vociare delle persone e, in ultimo, anche l’avviso che invita i visitatori a lasciare la na- ve perché è prossima la partenza, il tutto accompagnato da brevi suoni di sirena.
Sono le ore 22 in punto: suona lungamente la sirena. Si parte, ha inizio la navigazione. Questa volta sono proprio nella ‘pucia’: “O accetto questa dolorosa crociera o mi butto”; non ci sono altre soluzioni. Cerco di dormire, ma non ci riesco; ai miei noti disturbi adesso si aggiunge il dondolio della nave, i rumori degli splisc e splasc delle onde, gli odori accentuati della nafta. Per me è solo un grande tormento; cerco di pensare ad altro, per distrarmi, quando, eccoli, ritornano i satanici militari euforici e anche un po’ alticci, chiassosi e, come si dice: piove sempre sul bagnato. Non si limitano a dire che la cena è stata ottima, no, de- scrivono con enfasi tutti i particolari delle portate. Io non ce la faccio più.
Per fortuna decidono di tornare al bar e proseguire i festeggiamenti. Io li capisco, siamo quasi coetanei; sulla terra ferma o magari in montagna mi sarei unito a loro, purtroppo in questo momento la terra e la montagna sono solo chimere; adesso sono al mare, e come si sta al mare? Si sta in un modo completamente diverso; io non mi sono mai sentito così debilitato. Penso anche che non sia finita qui la mia triste avventura marinara. Forse il peggio deve ancora venire.
Restare in cabina non ce la faccio più, esco anch’io a prendere una boccata d’aria. Nel corridoio delle cabine incrocio un marinaio al quale chiedo quale sia il percorso per arrivare sul ponte e lui, gentilmente, mi indica la scala e mi dice che se vado a sinistra c’è la poppa e a destra c’è la prua. Salgo la scaletta e prendo la direzione della poppa e, giuntovi, malgrado la nausea riesco a dire a voce alta:
«E questa sarebbe la poppa, incompetenti, chi è che insegna anatomia in marina? Questa è la chiappa.»
Infatti sono finito in fondo alla nave e lì… girano le eliche… e come girano! Fa un freddo boia. Arraffo una coperta da una sdraio e mi avvolgo con la stessa e poi, vuoi per la mia delusione, vuoi per il freddo, vuoi che è arrivato quello che mi aspettavo: il “mal di mare”, faccio in tempo ad approssimarmi al parapetto della nave e… dopo un versaccio (di preavviso) incomincio a dare la pastura ai pesci.
La gelida brezza e gli spruzzi freddi dell’acqua di mare mi colpiscono il volto a ripetizione. Ho la faccia tutta congelata e all’improvviso mi arrivano, invece, getti caldi di molecole di cibo da un vicino compagno di sventura; e non è il solo, ce ne sono molti altri che fanno i nostri stessi esercizi liberatori. Purtroppo io sono in una posizione detta di controvento e sono il più portato a ricevere molti omaggi, per cui decido di arretrare fino al centro della poppa. Con un lembo della coperta mi ripulisco e mi vado a sedere in cima a delle cime. Non è che mi sia passato il male, io, per la verità, avrei terminato le provviste alimentar- intestinali; non avrei più nulla nello stomaco, ma il maligno mal di mare, purtroppo, si incattivisce e pretende di più, ancora di più, sempre di più. Non è solo un mal di mare ma è anche un male comune.
Sono ancora in tanti appoggiati al parapetto e ognuno emette un suo verso, un suono personale e, anche se le onde riescono ad attutirli, si possono sentire ugualmente e vi assicuro che non si tratta di un canto o di un inno di felicità.
Sono esausto. Quando sembra che stai bene, ecco un’altra ripresa e poi i tempi supplementari ed anche i tempi dei rigori… anche loro non finiscono mai.
Sono passate più di due ore. Sembra che vada meglio, ho una sensazione di sollievo che mi permette di guardarmi in giro e rendermi con- to che ci sono pure persone, avvolte nelle coperte, accucciate tranquillamente sulle sdraio. Che cu… ore che hanno. Beati loro.
Per la verità, anche a me l’agenzia aveva proposto la possibilità di effettuare la traversata rimanendo in coperta ed, eventualmente, dormire sulle sdraio; io avevo rifiutato in modo deciso. Mi ero detto: “Devo fare un viaggio di otto ore in mare, che per me rappresenta una novità assoluta, quindi desidero avere gli adeguati confort; pertanto, sia pure dell’ultima classe, voglio la cabina!!!”
E così fu. Ho la cabina nella quale ci sono le mie valige, mentre io, come persona fisica, sono sul ponte della nave a dare i numeri. Certa- mente invidio coloro che sono lì impassibili, tranquilli e dormono beatamente malgrado i nostri striduli lamenti.
Olfattivamente percepisco un acre odore di pecorino e, di seguito, individuo la sua provenienza. Di fianco a me, sdraiato sul ponte, c’è un pastore; un poco più spostato, un somarello e due caprette che si sono posizionate su di una grossa panca, e tutti dormono pacificamente.
In questo momento l’odore del pecorino non lo posso accettare e allora me ne vado anch’io sulla panca, anche perché quell’olezzo per me rap- presenta il pericolo di una ricaduta disastrosa.
In seguito arrivano a sedersi altre persone, tutte reduci dal fronte dei ‘tra sü’ e tutte come me con poca voglia di parlare; ognuna con i propri affanni e le proprie tensioni.
Si dice spesso che il tempo vola, qui… non passa mai.
Sono quasi le due di notte, quattro ore di traversata. Improvvisamente si accendono tutte le luci di bordo formando tanti trapezi luminosi.
Un marinaio ci spiega che si tratta del ’Gran Pavese’ (che ha niente a che vedere con i cracker) che di giorno si fa con le bandierine e di not- te con le luci e rappresenta un saluto marinaresco.
Nel nostro caso, si fa di notte perché è il saluto che avviene nel mo- mento in cui si incrociano le due navi della Tirrenia, vale a dire quella che va e quella che torna dalla Sardegna. Infatti appena sono affiancate c’è il saluto delle sirene e poi anche i saluti dei passeggeri e dei marinai dalle rispettive navi.
Molto suggestivo veramente.
Che bello. Ci voleva questo diversivo che è stato come un toccasana per me e per tutti quelli che come me sono naviganti sofferenti; infatti, anche se manifestiamo questo momento di benessere più con i gesti che con le parole, ci sentiamo molto più sollevati e meno pessimisti per il prosieguo del viaggio, per cui il nostro attuale obiettivo è quello di rimetterci in sesto prima che finisca la traversata per poi sbarcare rinsaniti e rinvigoriti dopo avere posto fine ai nostri guai.
Ritorna il marinaio, quello che poco prima ci aveva spiegato dettagliatamente tutte le fasi della cerimonia del ‘Gran Pavese’, e ci convoca tutti in circolo e lui si pone al centro. Siamo tutti molto curiosi perché siamo convinti che intenda farci conoscere qualche ulteriore novità marinaresca e… invece ci richiama alla realtà esortandoci a fare alcuni esercizi di respirazione, dandoci l’esempio, con la massima concentrazione per prepararci a sopportare il momento in cui la nave verrà a trovarsi nelle vicinanze delle Bocche di Bonifacio, perché, essendo il mare a forza ?!?!?! (non ricordo), è molto probabile che le correnti marine possano creare degli sballottamenti imprevisti tali da provocare alcuni problemi fisici se non si è preparati ad affrontarli. In parole po- vere ci voleva dire che sarebbe tornato il mal di mare. Seguendo le sue istruzioni ci siamo impegnati a eseguire gli esercizi e poi lui ci saluta dicendoci:
«Bravi, siete stati veramente molto bravi. Ho visto che vi siete applica- ti con buona lena, tenetevi pronti, siate forti, e reagite alle avversità da veri uomini.»
«E io che sono una donna?» chiede una signora con una vistosa gonna scozzese.
«Si adegui; magari metta i pantaloni.» è stata la risposta del marinaio.
Pensa che guaio; arrivano queste maledette previsioni proprio nel mo- mento in cui incominciavamo a riprenderci. Ma io dico: perché queste fetenti boccacce dovevano proprio trovarsi sulla nostra rotta, con tutto il mare che c’è in giro?!? Boccaccio, ti odio!
E’ pazzesco, incredibile; e così siamo tornati tutti molto contratti e, inconsciamente, ci guardiamo l’un l’altro negli occhi nell’intento di recepire, negli sguardi altrui, un mutamento di umore che sia di presa- gio dell’arrivo del nuovo indesiderato avvenimento.
E la barca va!
Per intanto non succede nulla, il mare è calmo. Vado a risistemarmi sulla panca e tento di rilassarmi. Accanto a me prende posizione un signore anziano che si presenta:
«Mi chiamo Amerigo Colombo e sono un milanese della Bovisa.» «Piacere.» rispondo dando anch’io le mie generalità. (Che bello se sulla nave ci fosse pure Cristoforo Vespucci, sarebbe il massimo, e magari, vederli soffrire di mal di mare).
Malgrado le apparenze, siamo tutti apprensivi perché sappiamo che fintanto che tutto è normale non succede nulla; soltanto se le cose dovessero peggiorare… e va beh! Allora… allora, ma non allora, adesso, ecco… forse ci siamo; anzi senza il forse, ci siamo proprio! La nave ondeggia, sembra che si alzi, le onde arrivano sino alla coperta; anche i coraggiosi delle sdraio se la filano, e… si ricomincia a recepire il ritorno di quel maledetto mal di mare.
Sulla tolda infieriscono le onde ed è tutto un formicaio di gente agitata, spaventata, urlante e vomitevole.
Sembra di essere nella giungla e sentire le urla di Tarzan, i ruggiti dei leoni, i barriti degli elefanti ed anche versi di cornacchia, ecc. ecc. Non ci sono solo le espressioni vocali ma anche attività commerciali quali i versamenti o riversamenti di chi dispone ancora di scorte di generi alimentari, mentre per gli altri i guai sono di altri generi
Da parte mia, anche se avverto un malessere non comune, resisto sulla panca in compagnia del Colombo e delle caprette, le quali, ad un certo punto, scappano e si rifugiano sotto la panca stessa, ed è il pastore che le riprende e le rimette di sopra, sempre vicino a me. Ma loro scappano ancora a nascondersi di sotto, ma il loro tiranno padrone le riprende e quasi me le butta addosso, al punto che una di loro, spaventatissima e senza mutande, nell’ultima fuga mi fa l’omaggio di scure pilloline organiche. Protesto e, per tutta risposta, la capretta, belando, mi fa: “Bee! Bee!” e riscappa. Quando il pastore la va a riprendere, da sotto, per riportarla di sopra, intervengo, appoggiato dal signor Colombo.
«Non vedi che hanno paura. Lasciale stare sotto la panca.»
E lui seccamente mi risponde:
«Pecché a di suttu la ppanca la capra crepa.» E qui casca l’asino… casca veramente; le sue gambe hanno ceduto e si è stravaccato, anzi, straasinato esanime sul ponte. L’asinello si lamenta con una tiritera che fa: J..a J…Ja…JaJaJ.a. E allora impietosito domando:
«Stai proprio male?»
E lui: “J.a…Ja..Ja.”
Poi replico:
«Che cosa ti senti, forse il mal di mare?»
E lui: “Ja..J.a..JJJaaa.”
Riprendo.
«Ma tu sei un tedesco?»
Risponde: “JaaaaJaaaJaaa.”
Concludo:
«Sì, anzi, Ja, Ja; l’avevo capito.»
Per fortuna l’odissea finisce, ritorna il sereno. Siamo apparentemente quasi tutti normali e tranquilli. A questo punto decido di recarmi in cabina almeno per recuperare l’orologio. Purtroppo mi è impossibile entrare perché c’è un inserviente che sta ripulendo gli esuberi dello stomaco dei baldanzosi satanici militari.
Come a dire: di fronte al mal di mare anche le forze armate si possono trovare disarmate, anche se ben nutrite. THIE! THIE!
Ritorno in quota di superficie e riprendo il posto sulla panca; il pastore munge le capre, l’asinello si è ripreso ed è in piedi e il signor Colombo dorme e sta russando. Mi appisolo, anzi, mi addormento anch’io. Quanto tempo abbia dormito, non lo so; quello che ricordo è stato il risveglio che è avvenuto quando il mio vicino di branda, pardon, di panchina, vale a dire il Colombo, si è messo ad urlare:
«TERRA, TERRA»,
ed io, trasognato ed ancora imbambolato dal sonno, ho pensato, in un primo momento, di essere finito in America.
Appena ritornato alla normalità cervellotica e mentale, in cui il buon senso e la ragione riprendono le loro abituali funzioni, mi accorgo di essere ancora in mare aperto; però riesco anch’io a vedere finalmente la costa che non è l’America, è quella agognata: la costa Sarda o se preferite della Sardegna. FINALMENTE.
In Sardegna
Appoggiato al parapetto del ponte della nave osservo i vari movimenti e le manovre dei rimorchiatori ai quali spetta il compito di portare la nave in porto.
Appena la nave è attraccata (così si dice, in marina, quando si arriva a casa) viene dato il permesso di scendere. Recupero le mie valigie e mi appropinquo a sbarcare.
Io ce l’ho fatta, sono arrivato in porto. A questo punto faccio tanti, tantissimi auguri a coloro che intendono andare in crociera per diporto. Io ci sono e sono arrivato per ‘trasporto’, e mi sono molto divertito, più che a sufficienza! Poi, a pensarci bene, c’è sempre il viaggio di ritorno: ma che bello… ma che bello! Quasi mi sp… Ma no!
Dall’alto della nave ho modo di dare un’occhiata al porto di Olbia Isola Bianca; non è un granché: c’è un discreto spiazzo sul quale ci sono alcuni taxi e carrozzelle, e, pensate… pensate, anche delle motorette (Vespe o Api) con attaccato un carrello sul quale ci sono delle sedie per i passeggeri, come un pulmino a quattro posti.
Dallo spiazzo parte una lunga lingua di cemento sul mare che, credo, sia l’unica strada per raggiungere il centro abitato.
Sul ponte, intanto, c’è molta confusione; si direbbe che le persone a bordo ne abbiano abbastanza della nave e desiderino scendere quanto prima possibile, creando un grande caos. Al ché interviene il comandante raccomandando la calma e invitandoci a disporci in fila indiana. L’invito è stato disatteso, e se prima eravamo disposti in fila indiana, a due a due, siamo passati a quella dei tre re magi, per terminare con la fila indiana dei quattro moschettieri affiancati. Una babele.
Accanto a me c’è un signore anziano con la borsetta da medico che mi dice che è da trent’anni che viene in Sardegna e non gli era mai suc- cesso di fare una traversata con un mare così grosso.
«Io non posso fare dei paragoni perché è la prima volta che vengo in Sardegna, e non per turismo ma per lavoro. A quanto pare, mi è capita- ta proprio la giornata peggiore per navigare.»
«Ah, se è la prima volta hai proprio avuto un brutto battesimo marina- ro, e… dimmi un po’: hai prenotato l’albergo?»
«Eh no, sono qui all’avventura, non conosco niente e nessuno.» «Allora facciamo così: se tu paghi la metà della spesa per la corsa in carrozzella, io ti faccio avere la camera in albergo e, non solo, penso di poterti aiutare. Che ne dici?»
«Certo, certo, va benissimo, anzi, la ringrazio.»
Mentre scendo dalla nave ho modo di pensare che sono stato fortunato ad incontrare questo signore: è proprio vero che dopo la tempesta ritorna il sereno, e se il buon giorno si vede dal mattino, qui, ché sono le sei e venti minuti, senz’altro sarà una bella giornata.
Lo spero intensamente.
Prendo posto sulla carrozzella, che parte. Sinceramente non sono molto tranquillo; si trotterella sulla striscia di cemento che non solo è abbastanza stretta ma ha pure il mare ai due lati; devo sperare che i caval- li non sbandino, altrimenti… che bagno.
Mentre stiamo carrozzando facciamo le presentazioni ufficiali. L’anziano signore è un dottore ortopedico; ha una ditta che confeziona cinti per ernie, busti, reggiseni, fasce elastiche e tutti gli articoli di ortopedia. Il dottore viene in Sardegna due volte all’anno e le sue venute sono precedute dall’affissione di manifesti nei vari centri in cui lui riceve le persone, che si sono prenotate per la visita; durante la quale prende le misure e, dopo 60 gg, spedisce in contrassegno alle stesse il tipo di manufatto terapeutico ortopedico confezionato su misura.
Mia madre, sono sicuro, ha fatto sì che il destino combinasse questo favorevole incontro. Infatti, seguendolo, ho la possibilità di giungere nelle varie località usufruendo dei mezzi di trasporto più idonei per i trasferimenti che il dottore conosce benissimo.
Arriviamo all’albergo Roma di Olbia. Ci accoglie la proprietaria che saluta il Commendatore (sì, anche il dottore è un ‘commenda’) e pure me; poi, dopo i convenevoli, non solo ho avuto la camera, ma anche il nominativo di un possibile primo cliente, che verso le 9 vado a visitare, e… TOMBOLA: nero su bianco, il primo ordine.
Entusiasta ma ancora un po’ frastornato per la brutta traversata, accetto il consiglio dell’ortopedico: rilassarmi nel pomeriggio per recuperare le forze, senza peraltro rimanere inoperoso, e diventare il suo assistente. Allettante proposta che subito accetto.
Ore 14,30, sono nella camera del dottore dove sono attese sette perso- ne. Sono vestito con un camice bianco, guanti e calotta da chirurgo e occhiali neri per camuffare, per quanto è possibile, la mia giovane età, per non mettere a disagio gli assistiti. Il mio compito è semplice, devo solo scrivere le misure che mi detta il commenda. E’ stata un’esperienza piacevole rendermi conto del suo operato, ma meno piacevole alla vista: purtroppo i quattro uomini e le tre donne avevano tutti un’età compresa fra i 65 e i 79 anni.
A cena confesso al mio “datore di lavoro” che sono rimasto un pochino insoddisfatto per l’età dei “visitatori”; speravo in qualche cosa di meglio.
«Abbi fede» ribatte lui, «ci sono ancora sei giorni e… vedrai, capiterà anche qualche cosa di interessante. Non disperare. Domani saremo ospiti nella villa di una signora vedova di Calangianus e al pomeriggio riceverò a Tempio Pausania nel retro della farmacia di un mio amico. Vai a riposare. A domani, alle 7 per la colazione.»
Arriviamo con la corriera a Calangianus. La signora che ci accoglie cordialmente, dirige un sugherificio lasciatole dal marito. Mi accompagna da un suo fratello che, più per riguardo alla sorella che per necessità, mi fa un’ordinazione di cortesia.
Sono appena le 9,30 e vorrei guadagnare tempo. Mi consulto con il dottore col quale do appuntamento all’albergo Italia di Sassari per il giorno dopo, e parto per Tempio Pausania.
Contatto un vigile locale che mi fornisce due buoni nominativi. Tento con il primo, ma va parzialmente buca, perché lui è solo un gerente; però mi dà il nominativo del suo titolare di Sassari. Bene. Il secondo è molto timoroso. Ottengo l’ordine con la clausola scritta secondo la quale lui può annullare il tutto, scrivendoci, entro 20 giorni.
Alle 13,30 c’è un pullman di linea che va a Palau, che è il porto d’imbarco per la Maddalena. Non c’è tempo da perdere. Raccatto un panino da un bar, e di corsa alla fermata degli autobus. Salgo sul mezzo, mi siedo e mi pappo il panino. Giunto a Palau, il proprietario di una barca a motore si offre, a pagamento, di portarmi alla Maddalena. E vai! Sono poche miglia, non c’è da soffrire.
Parlando con il marinaio vengo a sapere che sulla piazza del paese c’è un possibile cliente. Sbarco, seguo le indicazioni e mi presento da questo signore.
Che accoglienza, ragazzi, manco fossi un benefattore. Guarda con morbosa curiosità il campionario, mi fa i complimenti e poi telefona al figlio, anche lui del mestiere, che ha il negozio a Santa Teresa di Gallura. Passa poco più di mezz’ora, quand’ecco il figlio che è giunto con il motoscafo; anche lui entusiasta. Ognuno dei due mi fa le ordinazioni e poi mi accompagnano a Caprera per una breve visita alla tomba di Garibaldi.
Io gli offro la cena e il figlio mi ospita per la notte nella sua bella casa di Santa Teresa. Non solo, al mattino, in motoscafo, mi accompagna a Castelsardo da un suo amico. Con il suo entusiasmo lo convince ad acquistare. Ci salutiamo con un cordialissimo arrivederci.
Raggiungo Sassari. All’albergo trovo l’avviso che alla posta è arrivato il vaglia telegrafico. Provvedo immediatamente al ritiro, poi ritorno in albergo; vado a salutare il commenda dandogli appuntamento per la cena, poi mi reco dal signore del negozio di Tempio Pausania.
Non è stato un buon impatto anche se alla fine, per pura convenienza, ottengo il risultato voluto. Statisticamente, facendo riferimento sulla base di affari preventivata, ho già ottenuto un buon 35% della cifra e un discreto ambientamento che mi permette di muovermi in autonomia. A cena al Commenda descrivo con enfasi i miei successi e lui, complimentandosi, mi dice:
«Bravo, ormai sei capace di spostarti da solo, in caso di necessità conosci il mio programma e sai dove puoi trovarmi. Auguri e soprattutto non demoralizzarti per qualche insuccesso; reagisci.»
Il dottore come minimo deve fermarsi almeno una mezza giornata in ogni posto, mentre io devo gestire in modo diverso il mio tempo. Così mi resi indipendente con l’intesa di rincontrarci domenica a Cagliari, da dove lui sarebbe partito per tornare a Roma.
Tutto filò liscio; solo qualche insuccesso, compensato altamente dai successi. Solo al sabato sera, verso le 19, il trenino su cui ero salito a Carbonia per raggiungere Cagliari, si fermò a causa di un grosso albero messo di traverso sui binari. Un agguato.
Dei cinque passeggeri che eravamo sulla littorina, tre si alzarono e legarono e imbavagliarono il quarto, e scesero facendo scendere anche il manovratore. A me indicarono di incamminarmi su una buia e stretta strada assicurandomi che dopo un chilometro avrei trovato delle case. Mentre camminavo avevo sempre l’impressione che ci fossero dei banditi appostati con dei fucili, anche se mi resi conto che si trattava delle sagome delle piante di fichi d’india.
Raggiunsi a fatica le quattro case e fui costretto a pagare un banditore per trovarmi da dormire. Finii in un letto con un bambino deforme e con alle spalle un maiale. Una notte da incubo.
Alle 5 del mattino salii sul postalino (un carro agricolo con sei sedie trainato da un somaro). Dopo un’ora giunsi a Barbusi e poco dopo risa- lii sul treno e giunsi a Cagliari prima delle 8. Mi recai all’albergo Scala di Ferro. Il Commendatore stava facendo colazione e mi accolse calorosamente. Gli raccontai l’accaduto. Mi tranquillizzò:
«Hai fatto un’esperienza, ma non preoccuparti per il rapito, senz’altro è un dirigente delle miniere; verrà rilasciato appena pagheranno il riscatto. Prima lo pagano e prima verrà liberato, altrimenti il poverino dovrà restare legato e imbavagliato in qualche ovile tra capre e pecore, ma non gli faranno alcun male. Piuttosto preparati, mi devi fare da assistente.»
Alle 9 giunsero una madre (45 anni), bellina, e due figlie gemelle (20 anni). Ho scritto le misure della madre: bustino e reggiseno. Ho scritto le misure delle figlie: busto alto con coppe per i seni, per tutt’e due: dimostrando la mia serietà professionale… anche se avrei preferito togliere almeno gli occhiali scuri.
Durante il pranzo il dottore mi dice:
«Visto, come ti avevo promesso, non ci sono solo persone anziane, eh!»
«Sì, va bene, ma con quegli occhiali scuri…»
«Sei stato un assistente perfetto, forse avresti voluto fare il dottore. Bene, andiamoci a fare due passi in via Roma.»
Mentre passeggiavamo sotto i portici, il commendatore mi confidò di non essere sposato, di non avere figli e di essere stanco del suo lavoro: «Forse lascerò la ditta a mio fratello, perché è da tanto che ho passato la settantina e voglio riposare.»
Alle 16 venne un suo amico a prenderlo per portarlo all’aeroporto. Fu l’ultima volta che lo vidi e che lo sentii. Gli scrissi alcune cartoline ma non ricevetti più risposta.
Rientrai in Ditta il giovedì e fui accolto come si può accogliere un re- duce dal fronte. Il capo era in Sicilia. Mi aveva lasciato un messaggio con i complimenti e l’appuntamento con lui a Napoli per il giorno 5 febbraio. “Nel frattempo – c’era scritto – cerca di darti da fare per sistemare alcune cose in magazzino.” Era tornato tutto normale. Era iniziata in pieno la mia nuova attività. Andare a Napoli voleva dire che mi avrebbe assegnata anche la Campania; poco ma sicuro.
Per tornare alla Sardegna: ci sono stato per ben 18 volte fino al 1956. Ho conosciuto l’isola nell’immediato dopoguerra: una regione selvaggia ancora molto arretrata civilmente, con la sua gente, pastori e non, molto laboriosi ma altrettanto ostili e chiusi in se stessi (omertà) e diffidenti in modo particolare con i cosiddetti ‘continnentalli’. Ciò nonostante ho trovato un popolo orgoglioso.
Malgrado tutto sono riuscito ad affezionarmi alla sua natura aspra e desolata, con il suo territorio impervio e in maggior parte coperto di pietraie e di flora mediterranea. Ho trovato anche l’amicizia e la simpatia sia della clientela sia della gente comune. Ho apprezzato lo sforzo dell’On. Segni per rendere più moderna la sua Isola; ma il progresso, se così vogliamo chiamarlo, avvenne tramite il suo ‘MESSIA’, alias AGA KAN, ed altri apostoli e discepoli che hanno trasformato radicalmente la regione, nel bene e nel male.
Purtroppo con il progresso sono finite anche molte tradizioni popolari e il povero è rimasto povero, perché i vantaggi sono stati pressoché tutti a favore dei potenti. Io sarò pure un conservatore nostalgico, ma il mio amore per la Sardegna si ferma agli anni 1951-1956, anche se ritengo giusta la sua nuova collocazione civile e turistica; quello che non ritengo giusto è che per ottenere questi privilegi sia stata sfruttata a scopo di lucro e privata della sua originaria dignità e millenaria storia.
Pierfranco Gremmo, per molti anni socio dell’Unitre, è deceduto giovedì 30 luglio 2020, all’età di 89 anni. Nato nel biellese, è stato un appassionato filatelico e collezionista. Amava scrivere brevi racconti umoristici prendendo spunto da vicende a lui realmente accadute, o racconti di fantasia giocando umoristicamente con le parole.
Questo è il suo ultimo racconto dove ricorda, in modo schietto, i primi anni della sua carriera professionale.